Al calduccio nel tuo letto, chiudi bene i tuoi occhietti

Questa non posso non raccontarvela.

Rispolvero una vecchia ninna-nanna molto carina, alla quale sono affezionata.
La canto una volta, la canto una seconda, mi chiedono di cantarla una terza volta, ma dopo qualche nota, quasi in sincrono, scoppiano in lacrime.

Ora, che io non canti bene è risaputo, ma tanto male da indurre alla disperazione mi sembra esagerato. Abbraccio il piccolo e indago: ‘Superbimbo, ma cosa succede?‘. Non lo sa. O non lo sa spiegare. Interrogo il grande, il quale, invece, ha tutte le chiavi nel suo mazzo: ‘Questa me la cantavi quando ero piccolo, quando andavate all’ospedale‘.
Era la risposta che temevo.

Se me l’aveste raccontata voi non ci avrei creduto.
E, invece, per l’ennesima volta, due mucchietti di ossa mi fanno riflettere sulla potenza dei linguaggi non verbali, di quanto gestualità, immagini e musica possano scatenare emozioni forti e far affiorare ricordi antichi.
Suppongo che la nenia in questione verrà esclusa dal repertorio e riposta in uno dei cassetti della nostra storia.

Andare adagio. Oppure no.

A volte è il pensiero che accompagna chi lascia dopo mesi l’ospedale, chi si mette alle spalle il peggio della malattia e riparte con le ferite del bisturi che tirano e si lagnano come vele tese dal vento. Tornare sì, ma pian piano, con mille precauzioni, tante paure. Oppure? Oppure sfidarlo questo tempo che c’è stato dato, ciò che rimane da qui a quando gli occhi si chiuderanno, per sempre. Giocarsela fino in fondo, perché sia valsa veramente la pena. […] Trapiantati tutti e tre di fegato. Sotto il loro costato c’è una ferita che non vogliono scordare, ma di cui non vogliono essere servi. Dopo mesi di allenamenti […] sono a Göteborg per i World Transplant Games. […] Lo faranno per rispetto della vita che gli è stata data, per onorare chi morendo ha concesso loro un’altra possibilità.

Francesco Abate

Panta rhei os potamòs

Ieri lo guardavo.
Mentre faceva i capricci: sta crescendo.

Sono passati poco più di due anni, ma sembra una vita fa. Una vita di altri, addirittura. Lui pare non ricordare nulla, nonostante dica il contrario.
Ingoia la sua capsulina due volte al giorno, con un sorso d’acqua, e spalanca la bocca per mostrarci che l’ha mandata giù. Ormai prende solo quella da quasi un anno: niente più intrugli, sciroppi, pastigliette. Solo una dose minima di tacrolimus mattina e sera.
È un bimbo come tutti gli altri, frequenta il nido, è innamorato di G., corre, cade, si rialza. È un filo maniacale nel volersi lavare mani e denti. È sostanzialmente felice, più del fratello, oserei dire. Non ha i capelli folti (ma neppure lo zio, del quale è fedele copia), i dentini sono vagamente segnati (ma sono da latte), è goffo (ma anche lo zio alla sua età). Insomma, le terribili settimane in ospedale sembrano alle spalle.

Quando ci penso, però, mi si appoggia un peso insopportabile sul petto, torna il ricordo della paura e del dolore, anche fisico. Quella sensazione di essere intrappolati. Che vorrei non dover più provare. Come terapia scorro le foto scattate all’epoca: almeno una al giorno, dal ricovero alle dimissioni. Un diario fotografico che uso come percorso catartico, per liberarmi dalle ansie più profonde. Era così piccolo, così magro durante la setticemia! Eppure sempre sorridente. Come avrà fatto, poi?

Chiudendo il diario penso, invariabilmente, a chi questo terribile percorso lo ha appena cominciato o, ignaro, lo comincerà. Vorrei poter arrivare a ciascuno di loro, rassicurarli, mostrare loro Superbimbo, raccontare come sia possibile uscirne e in tempi relativamente sopportabili.

Perché avere un orizzonte a cui tendere fa sentire meno soli e meno terrorizzati.