È tutto un parlare di burnout negli ultimi mesi, di mental health, improvvisamente. E meno male, era ora. Lo trovo quasi inevitabile, e auspicabile, dopo due anni di pandemia e strascichi, in un mondo che ha assunto sfumature distopiche, con un digitale diventato imprescindibile anche per chi non lo avrebbe voluto. Eppure c’è qualcosa che dentro la mia testa stona.
Ci ho messo tanto a decidermi a scriverne, ci sto pensando in modo pressante da mesi, ciclicamente da anni, senza arrivare a farlo in modo esplicito. Forse è il momento – ma mentre butto giù queste prime righe ancora non ne sono certa.
Il concetto di burnout arriva dagli Americani, che sono dei maghi nel far diventare un termine un vero e proprio fenomeno ricoprendolo di glam – contestualmente penso anche alla Great Resignation, che restituisce toni di grande dignità: molliamo in massa perché abbiamo capito che la vita è qualcosa di più e ora quel qualcosa ce lo andiamo a cercare.
Intendiamoci, come dicevo: benissimo, va benissimo questa presa di coscienza universale, è necessario parlare di aspetti che vadano oltre ai raggi X, alle risonanze e agli esami del sangue. Eppure a me pare che il concetto di burnout abbia iniziato a circolare massivamente solo quando si è imbattuto nel mondo del business, perché finché si parlava di helping professions, beh, era grave, ma fin lì. Quando si è accanito sui settori di produzione, per lo più tech e digital, sotto i riflettori più potenti durante la pandemia e dove i capitali girano, allora abbiamo cominciato a drizzare le antenne. E, ripeto, meno male! Da questo atteggiamento ne verrà del buono, ne sono più che certa.
Ma vorrei che tutto quello che sta dentro a “salute mentale” non venisse poi a coincidere con “lo stato cronico e persistente di stress associato all’ambiente lavorativo“. Perché non è così, perché non è giusto occuparsene settorialmente scegliendo una sola direzione del flusso. Esiste anche un trend opposto, che è altrettanto delicato e che richiede altrettante attenzioni. Il burnout domestico e personale – che può anch’esso impattare sul lavoro, sulle relazioni con i colleghi, sulla lucidità mentale, sull’autostima professionale. Se vogliamo parlare di mental health, facciamolo a tutto tondo.
Perché questo sproloquio? Perché proprio in queste settimane sto scendendo a patti con il fatto che forse potrei aver bisogno di aiuto, ma che sto facendo fatica ad accettarlo. E ho pensato che raccontarlo ad alta voce potesse essere catartico per me e per qualcun altro, qualcuno che si trovi allo stesso punto del percorso.
Comincio dalla fine: da giugno ho cominciato a soffrire di attacchi di vertigini, forti, imprevedibili, da non riuscire a stare in piedi. “È la stanchezza, le prime avvisaglie di perimenopausa, la coda lunga del lockdown”, così mi sono giustificata.
Poi, però, un mese fa mi sveglio con una grave ipoacusia monolaterale: il mio orecchio destro non sentiva più buona parte dei suoni. Non me ne sono preoccupata, non mi preoccupo mai, io. Apparentemente. Alla visita specialistica, risulta che non c’è alcunché, da analisi strumentali il mio udito è bilateralmente perfetto. Si aprono diverse ipotesi, tra le quali problemi circolatori e vista la famigliarità ai TIA finisco con priorità B a fare una risonanza magnetica con contrasto al cervello, accompagnata da una buona pletora di esami del sangue per scongiurare tiroidismi e diabeti vari. Nel frattempo pure l’oculista mi dice che i miei occhi sono meravigliosi (eh vabbeh, smooth talker!).
Sono sana. Fuori tutto è sano. Ma io non mi sento sana. È quattordici anni che ho problemi di sonno, è vero, ma negli ultimi mesi sono stati accentuati da attacchi d’ansia, disturbi alla digestione di cui non ho mai sofferto, emicranie varie. Da dodici cado ciclicamente in pozzi di tristezza – quante volte mi sono chiesta se fosse depressione, senza mai affrontare la cosa seriamente. Ho sempre avuto l’impressione di farcela da sola, e forse così è stato. Ma questa volta, dopo essere crollata in lacrime anche di fronte al mio dottore, dopo aver provato invano tutti i modi che conosco e ai quali mi sono sempre aggrappata per risalire il dirupo, credo di dover ammettere di avere bisogno di aiuto.
Cos’è accaduto? Il primo lockdown l’ho vissuto come una tregua che stavo agognando, chiusa in un nido con i miei due figli preadolescenti siamo stati paradossalmente da dio – cucina, ginnastica insieme, balcone, ping pong in cortile, film e libri, il mondo chiuso fuori. In concomitanza, ho pensato fosse il momento ideale per cambiare lavoro dopo venti anni nella stessa azienda, e sono planata in una tech company in pieno sboccio. Tutto da ricominciare da capo, tutto da studiare, tutto in full remote. Tutto tanto, veloce, aspettative nuove, dinamiche personali da imparare, logiche da assorbire. Intanto l’isolamento andava e tornava, la Dad, la gestione dei due figli nella sua totalità, mia madre sola che da lontano non dava segnali positivi. Il carico è progressivamente aumentato, andando ad appoggiarsi su una stratificazione pregressa densa – il trapianto di un figlio, l’ospedalizzazione, l’anno di isolamento post trapianto, la separazione, la casa nuova, il mutuo trentennale, il tanto, il tutto. I traumi, la vita. Come tutti noi. Né più né meno. E il tutto pesa, dopo un po’ pesa davvero, soprattutto se non lo si può condividere.
Non scrivo per cercare compatimento, pacche sulle spalle, riconoscimenti di alcun tipo, né consigli o suggerimenti. Scrivo perché se è tanto vero che dobbiamo cominciare a parlare della salute mentale, è altrettanto vero che dobbiamo imparare ad ascoltare. Questo è l’altro nodo della questione. Negli anni, in diverse fasi della vita, ho sentito bonariamente sminuire il mio disagio con considerazioni del tipo: “Bella vita, la tua, di cosa ti preoccupi?“, “Ma di cosa ti lamenti? Che problemi hai?“, “A guardarti non sembra tu stia così male, però“, fino ad arrivare al più recente “Beh, ma sei sicura di non esagerare? Perché dal tuo feed instagram pare tu stia più che bene“.
Ecco, ci sono persone che non necessariamente vomitano il proprio malessere sugli altri, che non necessariamente vanno in giro con gli occhi gonfi e le vesti lacere, che non riescono o non vogliono raccontarsi. O che semplicemente tentano di contrastare il buio a modo loro. Non è l’esposizione della disperazione a doverci spingere a considerare la sofferenza mentale come qualcosa di reale, non è la disperazione esteriore a rendere più credibile uno stato interiore. Avere pre-giudizi nei confronti dello stato di salute non visibile di una persona fa ancora più male di un atteggiamento di indifferenza e non ascolto.
Questo volevo dire.