Quello che di buono c’è

Torno a tratti. In realtà scrivo costantemente, su ogni spazio di foglio di giornale libero, a margine degli appunti di lavoro, su mille file di testo sparsi. Scrivo ovunque e sempre. Oggi ho deciso di tornare a scrivere qui. Mancano poche ore alla chiusura di questo anno impietoso che ha riportato la malattia nella mia vita, per giri inusuali e non semplici da spiegare. Proprio quella malattia che ti costringe in ginocchio levandoti il respiro e che tenta di ucciderti dentro, prima che nel corpo. E che come Voldemort non si può nominare.

Eppure.

Una famiglia allargata, di quelle tanto odiate perché non conformi. Distanze infinite da colmare con le parole e i viaggi eterni. Una malattia che in principio pareva aver piegato anche l’amore, ma che in realtà ne ha fatto origami piccoli e bellissimi.
Alla fine di questo anno maledetto, dove tutto quello che sarebbe potuto andare male è effettivamente andato peggio fino all’ultimo, voglio guardare le piccole pietre preziose che ho trovato un passo dopo l’altro.

Voglio guardare ai pic-nic improvvisati su tappeti persiani nel giardino rigoglioso di una villa di campagna, al mare rubato in un mattino fuori stagione con le conchiglie sulla battigia, a una gita imprevista in moto nell’aria fredda di dicembre per finire in una stube a ridere con sconosciuti trovati lì per caso, a una cena con personaggi inverosimili che potevano benissimo trovare spazio nei film di Ozpetek, alla gita su un lago dietro casa e alla polenta per merenda, alle lunghe camminate nei campi. Guardo a rapporti ridisegnati in una nuova luce, a persone amate che hanno attraversato il buio e ne sono uscite luminose.

La felicità non arriva gratuitamente. È una scelta. È la decisione di guardare a quanto di buono e bello c’è, per quanto microscopico. È sforzarsi di non vagolare crogiolandosi nelle proprie sfighe – perché, davvero, ne abbiamo tutti da raccontare. È decidere di non rimanere a terra una volta caduti godendo della propria autocommiserazione (e parlo con cognizione di causa). Rimanere fedeli al buono e scrollarsi di dosso la polvere nera è tanto più faticoso. Ho fatto errori grandi quest’anno.

Eppure.

Ho vissuto momenti di un’intensità così calda e piena che rimarranno incisi nella mia memoria. Ho imparato a riaprire gli occhi subito dopo essermi disperata. Sono rimasta in silenzio in sale d’attesa con l’amore addosso. Ora è tempo di tagliare i lacci viscosi che legano a quello che non si ha, per fare spazio a quello che di buono c’è. Perché è tanto. tantissimo.

Quindi, anno nuovo arriva pure. Ovviamente mi troverai ubriaca, ma sicuramente non distesa a terra.

tempo fa

e da allora è un ricominciare sempre più consapevole e saldo

sono bloccata in uno spazio dentro la mia testa. non capisco come ci sia finita, io ero altrove e mi stavo pure divertendo. poi all’improvviso ho perso il controllo e sono scivolata dentro questo posto. perché? io non me lo ricordo. sto sforzandomi di pensare, sto cercando di tornare indietro per trovare il momento esatto. si è rotto qualcosa? l’ho perso? ma la memoria non ha tenuto traccia, o forse l’ha cancellata.

non riesco a muovermi eppure nulla mi costringe all’immobilità. sono ferma e mi muovo nelle vite degli altri. in Giappone esiste un fenomeno, quello degli Evaporati, persone che per tante ragioni decidono di abbandonare tutto, amici, famiglia, lavoro, e spariscono. esistono associazioni e strutture che li aiutano nel farlo perché in Giappone la gestione della privacy è cosa seria e neppure le persone più strette possono ottenere informazioni catalogate come private.

anche io sparisco. sparisco finendo nelle vite degli altri, mi faccio assorbire da loro per smettere di pensare. finisco nei loro racconti, nelle loro immagini. in genere accade leggendo, apro un libro, supero la prima manciata di pagine e mi lascio andare, permetto alla storia e alle persone dentro a quella storia di occuparmi interamente, di occupare lo spazio in cui mi trovo ora, l’anima, la pancia, ogni centimetro cubo sotto la pelle. più mi riempiono più ho buone probabilità di sopravvivere.

i libri mi hanno sempre salvata e questa è una grande verità. mi aiutano a fermare l’emorragia di pensieri che mi spaventa perché un giorno potrei smettere di lottare e decidere di abbandonarmi verso il fondo.

non riesco a prendermi cura di loro. cucino poco e male, non ci sediamo più a tavola per cenare, non ce la faccio con le troppe regole. loro non sanno, non riescono ad attraversare il guscio che tengo saldo per proteggerli. parlo, chiedo, li ascolto. rispondo alle domande sul mondo, dò vaghe indicazioni per tenere la loro capacità critica in allerta.

come faccio a ricominciare? per l’ennesima volta. ho sempre suggerito agli altri di aggrapparsi alle piccole cose. nel tempo la gente ignara mi chiedeva, si appoggiava e mi ascoltava, come se io sapessi.

inizia dalle piccole cose. alzati, fisicamente dico. lavati la faccia, spalma una crema morbida, truccati quel poco. bevi un caffè bollente e scosta le tende la mattina, spalanca le finestre anche quando l’aria è gelida e respira. per prima cosa respira.

Forse. Ma non ne sono ancora certa.

È tutto un parlare di burnout negli ultimi mesi, di mental health, improvvisamente. E meno male, era ora. Lo trovo quasi inevitabile, e auspicabile, dopo due anni di pandemia e strascichi, in un mondo che ha assunto sfumature distopiche, con un digitale diventato imprescindibile anche per chi non lo avrebbe voluto. Eppure c’è qualcosa che dentro la mia testa stona.

Ci ho messo tanto a decidermi a scriverne, ci sto pensando in modo pressante da mesi, ciclicamente da anni, senza arrivare a farlo in modo esplicito. Forse è il momento – ma mentre butto giù queste prime righe ancora non ne sono certa.

Il concetto di burnout arriva dagli Americani, che sono dei maghi nel far diventare un termine un vero e proprio fenomeno ricoprendolo di glam – contestualmente penso anche alla Great Resignation, che restituisce toni di grande dignità: molliamo in massa perché abbiamo capito che la vita è qualcosa di più e ora quel qualcosa ce lo andiamo a cercare.

Intendiamoci, come dicevo: benissimo, va benissimo questa presa di coscienza universale, è necessario parlare di aspetti che vadano oltre ai raggi X, alle risonanze e agli esami del sangue. Eppure a me pare che il concetto di burnout abbia iniziato a circolare massivamente solo quando si è imbattuto nel mondo del business, perché finché si parlava di helping professions, beh, era grave, ma fin lì. Quando si è accanito sui settori di produzione, per lo più tech e digital, sotto i riflettori più potenti durante la pandemia e dove i capitali girano, allora abbiamo cominciato a drizzare le antenne. E, ripeto, meno male! Da questo atteggiamento ne verrà del buono, ne sono più che certa.

Ma vorrei che tutto quello che sta dentro a “salute mentale” non venisse poi a coincidere con “lo stato cronico e persistente di stress associato all’ambiente lavorativo“. Perché non è così, perché non è giusto occuparsene settorialmente scegliendo una sola direzione del flusso. Esiste anche un trend opposto, che è altrettanto delicato e che richiede altrettante attenzioni. Il burnout domestico e personale – che può anch’esso impattare sul lavoro, sulle relazioni con i colleghi, sulla lucidità mentale, sull’autostima professionale. Se vogliamo parlare di mental health, facciamolo a tutto tondo.

Perché questo sproloquio? Perché proprio in queste settimane sto scendendo a patti con il fatto che forse potrei aver bisogno di aiuto, ma che sto facendo fatica ad accettarlo. E ho pensato che raccontarlo ad alta voce potesse essere catartico per me e per qualcun altro, qualcuno che si trovi allo stesso punto del percorso.

Comincio dalla fine: da giugno ho cominciato a soffrire di attacchi di vertigini, forti, imprevedibili, da non riuscire a stare in piedi. “È la stanchezza, le prime avvisaglie di perimenopausa, la coda lunga del lockdown”, così mi sono giustificata.
Poi, però, un mese fa mi sveglio con una grave ipoacusia monolaterale: il mio orecchio destro non sentiva più buona parte dei suoni. Non me ne sono preoccupata, non mi preoccupo mai, io. Apparentemente. Alla visita specialistica, risulta che non c’è alcunché, da analisi strumentali il mio udito è bilateralmente perfetto. Si aprono diverse ipotesi, tra le quali problemi circolatori e vista la famigliarità ai TIA finisco con priorità B a fare una risonanza magnetica con contrasto al cervello, accompagnata da una buona pletora di esami del sangue per scongiurare tiroidismi e diabeti vari. Nel frattempo pure l’oculista mi dice che i miei occhi sono meravigliosi (eh vabbeh, smooth talker!).

Sono sana. Fuori tutto è sano. Ma io non mi sento sana. È quattordici anni che ho problemi di sonno, è vero, ma negli ultimi mesi sono stati accentuati da attacchi d’ansia, disturbi alla digestione di cui non ho mai sofferto, emicranie varie. Da dodici cado ciclicamente in pozzi di tristezza – quante volte mi sono chiesta se fosse depressione, senza mai affrontare la cosa seriamente. Ho sempre avuto l’impressione di farcela da sola, e forse così è stato. Ma questa volta, dopo essere crollata in lacrime anche di fronte al mio dottore, dopo aver provato invano tutti i modi che conosco e ai quali mi sono sempre aggrappata per risalire il dirupo, credo di dover ammettere di avere bisogno di aiuto.


Cos’è accaduto? Il primo lockdown l’ho vissuto come una tregua che stavo agognando, chiusa in un nido con i miei due figli preadolescenti siamo stati paradossalmente da dio – cucina, ginnastica insieme, balcone, ping pong in cortile, film e libri, il mondo chiuso fuori. In concomitanza, ho pensato fosse il momento ideale per cambiare lavoro dopo venti anni nella stessa azienda, e sono planata in una tech company in pieno sboccio. Tutto da ricominciare da capo, tutto da studiare, tutto in full remote. Tutto tanto, veloce, aspettative nuove, dinamiche personali da imparare, logiche da assorbire. Intanto l’isolamento andava e tornava, la Dad, la gestione dei due figli nella sua totalità, mia madre sola che da lontano non dava segnali positivi. Il carico è progressivamente aumentato, andando ad appoggiarsi su una stratificazione pregressa densa – il trapianto di un figlio, l’ospedalizzazione, l’anno di isolamento post trapianto, la separazione, la casa nuova, il mutuo trentennale, il tanto, il tutto. I traumi, la vita. Come tutti noi. Né più né meno. E il tutto pesa, dopo un po’ pesa davvero, soprattutto se non lo si può condividere.

Non scrivo per cercare compatimento, pacche sulle spalle, riconoscimenti di alcun tipo, né consigli o suggerimenti. Scrivo perché se è tanto vero che dobbiamo cominciare a parlare della salute mentale, è altrettanto vero che dobbiamo imparare ad ascoltare. Questo è l’altro nodo della questione. Negli anni, in diverse fasi della vita, ho sentito bonariamente sminuire il mio disagio con considerazioni del tipo: “Bella vita, la tua, di cosa ti preoccupi?“, “Ma di cosa ti lamenti? Che problemi hai?“, “A guardarti non sembra tu stia così male, però“, fino ad arrivare al più recente “Beh, ma sei sicura di non esagerare? Perché dal tuo feed instagram pare tu stia più che bene“.

Ecco, ci sono persone che non necessariamente vomitano il proprio malessere sugli altri, che non necessariamente vanno in giro con gli occhi gonfi e le vesti lacere, che non riescono o non vogliono raccontarsi. O che semplicemente tentano di contrastare il buio a modo loro. Non è l’esposizione della disperazione a doverci spingere a considerare la sofferenza mentale come qualcosa di reale, non è la disperazione esteriore a rendere più credibile uno stato interiore. Avere pre-giudizi nei confronti dello stato di salute non visibile di una persona fa ancora più male di un atteggiamento di indifferenza e non ascolto.

Questo volevo dire.

Legami

I libri legano. Legano le persone e le loro vite. Ci pensavo oggi, in una domenica grigia e solitaria, piovigginosa. Giravo le pagine dell’Accordatore di piano, seduta sul divano di fronte alle grandi porte finestre. “On the nature of daylight” stava andando in loop da un’ora ad un volume al limite del sopportabile, l’ho alzato di mezz’ora in mezz’ora perché mi riempisse e mi togliesse il fiato. Sì, lo so, è un brano trito, abusato, ormai mainstream, ma non me ne frega niente, io non ho nulla di originale, in fondo, e quando ho bisogno di pensare, mi riesce meglio tra piano e archi. Oggi toccava a lui.

Leggevo e mi sono fermata all’improvviso a chiedermi cosa stesse facendo in quel preciso istante l’uomo, pressoché mio coetaneo, che ha scritto questa storia vent’anni fa. Come avrà fatto, da dove avrà iniziato? Avrà scritto di getto o avrà avuto bisogno di anni?
Ha visto la storia prima di fissarla sul foglio o gli sarà cresciuta tra le mani, avendo immaginato solo la figura dell’accordatore e della sua missione? Quanto avrà studiato sulla Birmania, la sua cultura, la lingua, la geografia e la storia del colonialismo britannico? E avrebbe immaginato che la traduzione del suo libro sarebbe arrivata nelle mie mani? Sa che ho cercato notizie su di lui e che lo faccio con ogni autore perché mi aiuta a farmi un’idea sulle ragioni che lo hanno portato a scrivere proprio quella storia?


Daniel, laureato in biologia e medicina, mi ha portato dall’accordatore che mi porterà dentro altre storie. Come ci è riuscito? Come ci riescono, loro, gli scrittori? Ogni volta mi stupisco, ad ogni libro rimango sospesa mentre guardo filamenti sottili tendersi tra individui lontanissimi. E che differenza fa che siano reali o inventati? L’accordatore rimane per me reale tanto quanto l’autore che conosco solo attraverso altre parole e articoli scritti, in un reiterare continuo della narrazione che crea legami. Ma quanto deve essere bello mettere una parola dietro l’altra e arrivare alla totalità della storia e vederla stampata, in bella mostra su uno scaffale in libreria? Quanta meraviglia c’è nel combinare suoni che rimangono nel tempo, destinati a sconosciuti che un giorno li troveranno dentro le pagine di un libro scelto a caso e che li legheranno più o meno consapevolmente al loro compositore?

Torno sul ponte della nave con Edgar e l’Uomo con una sola storia.

Inno alla Vita

Ogni anno questo giorno mi mette alla prova. A volte sento il cuore contrarsi fino a far male, altre avrei solo voglia di correre su per una montagna e sorridere come una cretina una volta arrivata in cima. In entrambi i casi, però, è un giorno che vivo più intensamente possibile.

Oggi, 14 ottobre 2020, sono trascorsi 11 anni dal trapianto di fegato di Riccardo e per me rimane, paradossalmente, la migliore lezione di vita che potessi ricevere.

Un trapianto è una nuova possibilità E si sa che gli inizi sono meravigliosi. Eppure è proprio la possibilità di per sé, la possibilità di poterne vivere tanti nella vita che dovrebbe essere celebrata e mai data per scontata. Poter cominciare di nuovo, anche nelle piccole, piccolissime cose – un libro, lo studio di una lingua che non avevamo mai preso in considerazione, uno sport. Così come non dovremmo precluderci, per paura, i grandi nuovi inizi – un lavoro diverso, cambiare città, lasciare andare un amore che non ci rende felici. Nella vita ci vuole fegato.

14 ottobre 2009 

È notte fonda e lo guardo dormire tranquillo. È arrivato, il fegato è arrivato.  O almeno teniamo le dita incrociate che possa essere quello giusto per lui. 

Erano le 21.30 ieri sera quando il Sig. Tante Domande mi telefona, la voce rotta: “Hanno chiamato dalle Molinette. È arrivato il fegato. Torna.” Era lui di  turno. Nella sua voce tutta la tensione, la stanchezza, l’amore. Stavo preparandomi per andare a letto con il Principe del Piemonte e invece gli ho  spiegato cosa stesse accadendo, in fondo aveva assistito a tutta la telefonata in incredibile silenzio, cosa anomala quando si tratta di lui. Mi fissava stravolto. Il giorno successivo avrebbe chiesto alla nonna  dove sarebbe finito il fegato malato e lì su due piedi è stato inventato un bidone speciale. Una risposta che lo ha stupito, ma anche soddisfatto nella sua semplicità. 

Non ho provato felicità. Contrariamente a quanto mi sarei aspettata di provare, neanche  un grammo di felicità. Ho provato sollievo. Un profondo sollievo e tanta voglia di dormire. Hanno chiuso l’uscita per Abbadia di Stura e mi è toccato percorrere tutta la tangeziale attorno alla città. Una variante che non avevo mai seguito prima, ho guidato stremata su una strada completamente vuota, a notte fonda, con il pensiero di arrivare il prima  possibile.  

Un digiuno, prelievi, l’ultima radiografia e poi entriamo in sala. Mi chiedo che giornata ci  aspetti. 

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Una giornata strana. Alla fine non ho trovato altro aggettivo che potesse descrivere meglio il giorno del suo trapianto.  

Alle 13.00 lo abbiamo salutato con le lacrime agli occhi, per un miscuglio di sentimenti che non saprei mai e poi mai sbrogliare. Poi più nulla, fino all’1 di notte, quando l’intervento è finito. 

Una giornata di sole, splendida anche se freddina, trascorsa a pranzare con  calma a Eataly (ancora non lo sapevamo che sarebbe diventata tappa fissa ad ogni controllo successivo), a passeggio per Torino come due turisti, cena in una brasserie del centro, la prima che abbiamo trovato, dove i nostri pensieri sono stati accompagnati da un coinvolgente jazz anni ’90. Non abbiamo parlato quasi. Mi chiedo quanto la paura di soffrire possa rinchiuderti in una bolla di sapone e tenerti sospeso. Non avrei sopportato  l’attesa fuori dalla sala operatoria. 

Dicono che l’intervento sia andato per il meglio, il fegato è arrivato da una  giovane ragazza. Non abbiamo voluto sapere di più, che situazione assurda dover aspettare la morte di qualcuno… Ti trovi a non sapere cosa sia giusto provare. Ci spiegano al volo che il nuovo organo era troppo grande per il suo pancino, hanno applicato una placca in materiale speciale che verrà “pinzata” gradualmente fino ad essere rimossa definitivamente. Santo cielo. Ma va bene. Superbimbo dovrà rientrare in sala operatoria altre volte. Ho perso il conto di tutte le volte precedenti, poco importa.

Alle 3.00 abbiamo attraversato la strada, siamo entrati nell’hotel di fronte all’ospedale dove ho  trascorso una delle migliori notti da anni: un letto singolo, lenzuola pulite, una coperta di  lana calda e pesante. Non ho pianto, non ho sofferto, ho sospeso i sentimenti. E ho  dormito un sonno profondo.